Rating: 4/5
di Ludovico Casaburi
Dio salvi la Regina, ma soprattutto conservi intatto il talento di Alex Turner. In questo sporco mondo che è quello della critica musicale dicono che il terzo album, per una band, sia quello decisivo, quello della consacrazione. Il primo è la novità, l’epifania, la ventata d’aria fresca che di solito spazza via le ragnatele dalle orecchie di ogni indie-addicted. Così, se vi ricordate, fu per Whatever People Say I Am, That’s What I’m Not (2006), primo lavoro degli Arctic Monkeys, che dalla ‘city of seven hills’, Sheffield, vennero per diffondere il loro rock colorato di neo-punk danzereccio, stiloso e punteggiato. Il 2007 fu invece l’anno di quel capolavoro assoluto che è My Favourite Worst Nightmare, seconda fatica di Turner & Co., ancor più sorprendente del precedente perché asciugato di tutta una serie di ghirigori superflui e arricchito da una consapevolezza: il songwriting del leader dei Monkeys aveva raggiunto vette inattese e quantomai benvenute.
Passano due anni, Turner nel frattempo si dedica con successo al progetto The Last Shadow Puppets (duo che si completa con la presenza di Miles Kane dei Rascals), e anche grazie alle ottime cose sentite in The Age of the Understatement (unico album dei Puppets straordinariamente accompagnati per l’occasione dalla London Metropolitan Orchestra) cresce l’hype per il terzo album dei Monkeys.
In realtà, alla vigilia, di cosa sarà questo Humbug si sa poco o nulla, almeno fino alla clamorosa rivelazione: gran parte del disco sarà prodotto da quella vecchia volpe di Josh Homme, mastermind dei Queens Of The Stone Age. Lecito immaginarsi un cambio di direzione dunque. E anche piuttosto drastico. Che sfida, ragazzi: le scimmie artiche, gli eredi di Paul Weller, che espatriano nel deserto americano guidati dal santone dell’hard rock a caccia del Graal del suono. Poteva essere un esperimento andato male, ne è venuta fuori una bomba.
Badate, Humbug è tutt’altro che un disco semplice. L’orecchio non abituato farà fatica ad adattarsi alle frasi, mai banali, che ne costituiscono il racconto. Ma tant’è, this is indie-rock’n’roll gentlemen. Sensibilmente più ‘scuro’ degli altri lavori della band di Sheffield, Humbug è certamente più maturo, è evidentemente molto più un disco di ‘ricerca’ che di attestazione di qualcosa di assodato. ‘Intimo’ è la parola giusta. La presenza di Homme si sente eccome: nelle chitarre soprattutto – lecito aspettarselo – ma più in generale nell’atmosfera ‘sabbiosa’, ‘secca’, ‘stone-aged’, di tutto il disco. Zio Josh ha detto ai ragazzi «fatemi sentire qualcosa», insomma, «e vediamo cosa ne viene fuori».
Lo spirito danzereccio che fu lascia spazio a ritmi meno serrati, ma non per questo meno accattivanti, mentre le capacità di scrittura di Turner – le linee vocali del nostro sono più diluite, ragionate, meno nevrotiche – coinvolgono a ogni ascolto un po’ di più. Nonostante tutto, Humbug è e resterà un disco di ‘canzoni’, dieci tracce che ti crescono dentro con il passare del tempo, da My Propeller a The Jeweller’s Hands, passando per il singolo Crying Lightning e per la meravigliosa Fire And The Thud (featuring la zuccherosissima Alison Mosshart in qualità di back vocals), forse la cosa migliore.
Un album che se non ripete il botto di My Favourite Worst Nightmare è solo perché chi ha talento, e le scimmie ne hanno a pacchi, non si ripete. Mai.